Alle prime avvisaglie di crisi del sistema neoliberista, si scioglie il movimento della decrescita volontaria. Ma forse non è la fine: ci salveranno i no-TAV?

Ammettiamolo: abbiamo preso una sonora cantonata.

Nei momenti di maggior splendore di questo sistema bacato, quando solo le persone tradizionalmente sensibili a territorio e ambiente potevano scorgere che non c'era né logica né futuro nel paradigma della crescita infinita, abbiamo creduto possibile che un gruppo di pochi (ma tosti) idealisti potesse traghettare parecchi miliardi di individui in un futuro di giustizia e sobrietà.

Fummo il popolo della decrescita, termine creato da Nicholas Georgescu-Roegen, fondatore della bioeconomia, un sistema economico/sociale basato su principi ecologici, in contrapposizione con quello dominante basato sui principi di competizione e  crescita.

La parola magica assunse, tramite degli aggettivi che gli venivano messi accanto, le connotazioni più disparate, spontanea, volontaria, attiva, fino al delirante felice. Avemmo la presunzione di convincere, via via che le condizioni economico/sociali fossero peggiorate, un numero sempre maggiore di persone a uno stile di vita sobrio, incentrato sulla sostenibilità ecologica, quindi possibile, in contrapposizione con un sistema ferocemente avviato verso un baratro.

Si trattava di una rivoluzione non violenta, basata sul proselitismo, sul sempre maggior numero di adepti. Le teorie erano convincenti, anche perché erano state elaborate da menti lucide, come Serge Latouche, o Paolo Bonaiuti. Si basavano su un processo contro-intuitivo dotato di grande potenza, in grado di scardinare le nostre convinzioni economiche dai piedi d'argilla e di aprire le porte, in maniera limpida, a uno scenario quanto meno plausibile.

Immaginate: ci si apriva un mondo diverso e possibile, e fummo trascinati con un entusiasmo d'altri tempi. Aspettavamo con ansia i primi scricchiolii di questo sistema ingiusto e dominante, per poter assistere, complice la nostra propaganda, al graduale trionfo della decrescita.

Che cosa è successo, invece? Beh, i primi scricchiolii, come previsto, sono arrivati (ci siamo dentro fino al collo, in realtà), ma di trionfo della decrescita, non c'è traccia. La cosa straordinaria è che non solo non si è riusciti a trovare la cosiddetta 'massa critica' (locuzione derivata dalla fisica nucleare, discutibile dal punto di vista estetico), ma addirittura molti sostenitori capostipiti della decrescita se la sono data a gambe, passando a infoltire l'altro affollato fronte.

Non si spiegherebbe altrimenti l'incredibile successo che il montismo, con le sue teorie di rigore e rilancio della crescita, sta avendo soprattutto a sinistra. Ascoltando il discorso di Bersani, un peana della crescita infinita, proprio in occasione dell'insediamento dell'attuale premier, viene da chiedersi dove siano finiti tutti gli elettori e militanti del PD che in tempi ormai andati, affollarono le conferenze di Latouche e degli altri teorici decrescenti. Scomparsi nel nulla.

Altro che decrescita felice, altro che crisi salvifica, altro che massa critica: alle prime avvisaglie della grande crisi che ci aspetta, ci siamo cacati in mano. Abbiamo visto la decrescita infelice e abbiamo chiesto allo zio Mario di toglierci le castagne dal fuoco. "C'è gente che soffre, che ha perso il lavoro," mi dice giustamente un ex-decrescente, "e non possiamo trascurare le istanze di chi ha paura del futuro, e che vede nella ripresa della crescita la soluzione ai suoi problemi."

Ohibò, ma noi decrescenti non eravamo così superficiali: menti luminose ci guidavano, e il problema della dipendenza dalla crescita ce lo ponemmo eccome: qui, qui, e qui, per esempio.

Qualcuno addirittura arriva a sostenere in maniera sfacciata movimenti di rivolta di massa, come quello dei forconi, che con la decrescita si pongono in netto contrasto, chiedendo a gran voce carburante meno caro, uno dei vessilli degli apologeti della crescita infinita.

Tutto a rotoli, quindi? No, per fortuna. La salvezza del movimento potrebbe venire dai comitati che difendono interessi locali, come quello contro la TAV in Valsusa. La protesta sta assumendo una dimensione globale, e, come si capisce dall'astio dei media mainstream, comincia a dare veramente fastidio.

Globalizzare le teorie di un movimento locale significa mettere in discussione non il passaggio del treno in un tal luogo, ma l'intero sistema dell'alta velocità. Si contesta non il traforo delle Torricelle, ma la mobilità privata in automobile. Non una cementeria nella valle dell'amarone, ma la civiltà del cemento. Non l'inceneritore di Ca' del Bue, ma la produzione massiccia, la raccolta indifferenziata e l'incenerimento dei rifiuti.

Se il movimento continuerà a opporsi in maniera attivamente non-violenta, e non cederà alle provocazioni, la risposta più convincente contro il dogma della crescita infinita è già tracciata.