Nel mondo del web girano cifre da urlo. In quello reale tariffe al limite della perdita, crisi, concorrenza spietata e soldi contati. Due mondi apparentemente inconciliabili. Eppure si assiste a numerosi salti dello steccato, da entrambe le parti.

 

Mai provata la sensazione di non sapere se sei sveglio o se stai ancora sognando?

The Matrix - 1999


Quando nel 2012 Instagram, un'aziendina di quindici dipendenti, fu comprata (da Facebook) per oltre 1 miliardo di dollari, noi esseri umani pensammo che il mondo stesse decisamente andando a puttane.

Lo sproposito pagato fu l'emblema della follia dell'ultima bolla finanziaria, quella del web 2.0. Ovviamente non si trattava di un'eccezione: l'affare sta in compagnia con l'acquisto di Youtube nel 2006 da parte di Google (1,65 miliardi di dollari, pezzenti!), quello di Skype nel 2011 (Microsoft, 8,5 miliardi di dollari) e WhatsApp nel 2014 (Facebook, 19 miliardi di dollari).

Si parla di miliardi di dollari come se fossero milioni, con sinistra disinvoltura. E tutto questo mentre l'economia reale stenta a far quadrare i conti, gli stipendi reali calano, i posti di lavoro vanno a ramengo.

È tutto oro quello che luccica nell'economia virtuale? Le cifre, quelle vere, sembrano dare ancora ragione alle aziende dell'economia materiale: una ricerca effettuata da R&S-Mediobanca mette in luce come i primi 10 big mondiali dell'economia reale (come Google, Facebook, o Amazon, etc.) capitalizzino insieme tanto quanto i corrispettivi del comparto manifatturiero (Apple, General Electric, Nestlé, etc.), e cioè (procuratevi una calcolatrice scientifica) circa 2 mila miliardi di euro (€ 2.000.000.000.000).

Epperò i fatturati totali vedono ancora prevalere i costruttori di cose reali. I venditori di fuffa virtuale totalizzano nei primi 6 mesi del 2015 164,2 miliardi di euro, quelli che producono 'cose' sono a 472,8; quasi tre volte tanto. Quindi cos'è che dà così tanto valore alle aziende della fuffa? Le previsioni di crescita degli analisti di borsa. Un comparto enorme sostenuto da attese di crescita e di profitto basate sostanzialmente sul nulla. Detto in altre parole, siamo di fronte all'ennesima bolla speculativa.

In realtà la virtualizzazione delle aziende è ben più estesa di quanto non dicano queste fredde statistiche: molte aziende apparentemente solide poggiano i loro piedoni di argilla nel fango del virtuale. Per esempio la Apple, per il fatto che a Cupertino progetta miniaggeggi infernali (la cui produzione è in realtà esternalizzata in Cina), è considerata azienda manifatturiera, ma noi sappiamo che Tim Cook e i suoi soldatini sono i principi della fuffa.

Nessuno si accorge di questa pericolosa lievitazione di valori perché in questo momento il mondo sta andando in fiamme per le speculazioni sul petrolio. Il prezzo basso dell'ex oro nero sta mettendo in difficoltà le aziende petrolifere USA che hanno investito nel fracking, ora costrette a svendere i propri asset per ripristinare la liquidità. Proprio questa ondata di svendite potrebbe far esplodere la bolla, coinvolgendo le aziende web che hanno valori di borsa non supportati da fondamentali.

Ma per il momento l'intero settore web gode di ottima salute. La prova? Chi ha venduto la ditta, realizzando plusvalori da miliardi di dollari, non se n'è andato alle Canarie (dove con il denaro avrebbe potuto comprare non una villa o un albergo, ma un'intera isola), ma ha tenuto i soldi nella web-economy. Se non è fiducia questa...

Eppure lo steccato che divide l'economia virtuale da quella manifatturiera è oggetto in questi mesi di numerosi salti. Da una parte ci sono le aziende del virtuale che cercano di radicare nella vita vera: Google X è una struttura segreta che si occupa di progetti futuristici quali la robotica, (con l'acquisto della Boston Dynamic e altre società specializzate in questo settore), la realtà aumentata con i Google Glass, droni per le consegne a domicilio (Project Wing), lenti a contatto tecnologiche, e la Google Car, l'auto col pilota automatico.

La stessa Google ha investito nel geotermico di terza generazione, basato sulla trivellazione di profondità per raggiungere punti caldi della crosta anche da zone non naturalmente termali. "Con tutti i nostri miliardi di dollari," avranno pensato, "possiamo raggiungere il centro della terra."

Ma non mancano anche i progetti per portare connettività nelle zone più sperdute, un business reale, che però ha molti legami con la loro attività virtuale principale, visto che gli utilizzatori saranno tutti clienti della grande G.

Anche i concorrenti si stanno muovendo, tra parziali successi e badilate nei denti. È notizia di questi giorni che Internet.org, oggi chiamato Free Basics, progetto di Facebook per portare nel terzo mondo la connettività gratuita, è stato bocciato dal Telecom Regulatory Authority of India, l'ente governativo indiano. La connettività per tutti (ma con la quale si possono raggiungere solo facebook e siti amici) è stata giustamente valutata come una colossale truffa, un'acquisizione illegale di un enorme numero di clienti esclusivi, e un serio attentato alla libertà della rete (libertà che comunque i giganti in questione hanno seriamente compromesso).

Poco male: Zuckerberg potrà consolarsi facendo partire Free Basics in Ghana, Mozambico, Mauritania, Indonesia (dove però non sono tutti d'accordissimo), Iraq, Pakistan, Thailandia, Vanuatu, Colombia, Messico, Panama e altri. Però senza l'India al progetto mancherà una bella fetta di business.

Ma non ci sono solo i big del virtuale che cercano di rendere solide le loro enormi fortune fittizie: anche i giganti del manifatturiero stanno scavalcando lo steccato, nella direzione opposta. L'obiettivo è quello di entrare nel business dorato del virtuale, al grido di "e io chi sono, il figlio della serva?"

Sono finiti i tempi in cui da un garage due giovani squattrinati potevano mettere le basi di una grande fortuna industriale: per entrare nel settore web da protagonisti occorre mettere in ammollo capitali sterminati. Ma esistono corporation che questa disponibilità di capitali ce l'hanno eccome, e sono intenzionati a usarla. La General Electric Co. colosso che produce di tutto, dai motori a reazione alle locomotive, dalle centrali termoelettriche a quelle nucleari, si sta riorganizzando per diventare un produttore di software.

L'obiettivo non è certo quello di produrre app per smartphone, ma sfruttare la branca industriale del web, la cosiddetta "internet delle cose", ovvero far comunicare tra loro gli apparati industriali, magari non solo quelli prodotti da GE.

Nei piani di ricollocamento logistico di GE c'è una divisione digitale, affidata a un certo Bill Ruh, proveniente da Cisco, che ha in progetto diverse 'farm' (stabilimenti) di sviluppo software e, tanto per cominciare, ha assunto 1200 sviluppatori a San Ramon, in California, a due passi dalla Silicon Valley. GE dovrà affrontare la concorrenza agguerrita da giganti del software come IBM, Oracle, SAP e Microsoft, ma a quanto pare non ha timori reverenziali. "Le nostre locomotive saranno dei data center con le ruote," ha dichiarato Ruh.

Chi ha ragione? Le aziende reali che saltano nel virtuale, o quelle virtuali che si radicano nel reale? Le prime entrano in settori profittevoli (almeno per quanto riguarda le transazioni in borsa), le seconde rendono concreti i favolosi guadagni realizzati nel virtuale. Dal loro punto di vista hanno ragione entrambe, visto che lo fanno sulle spalle dei risparmiatori.