All' Arsenale va in scena l' ultima zampata di Giovanni Meloni.

Una zampata, certo, perché si tratta di un'installazione, a cavallo fra il figurativo e il concettuale, che colpisce duro. Una serie di tombe con foto, di sacchi di plastica presumibilmente pieni di poveri resti e un grande quadro che espone brutalmente corpi mozzati: esseri umani come carne da macello!

Il riferimento geografico è l' estremo oriente: Birmania, Tailandia, Viet Nam. Nessuna speranza, nessuna redenzione. Il viaggio implacabile di Meloni nelle pieghe del mondo e dell' essere umano continua con la consueta forza espressiva e un'incisività ancora più essenziale.

I soliti materiali, sempre duri ed acuminati, come coltelli a scarnificare una realtà che appare sempre più disumana e inaccettabile. Che si tratti di colori o di fogli di plastica nera o di lame di metallo o di colori acrilici o di acquerelli, c' è sempre un segno che incide, che seziona, che va a scavare, che non si accontenta delle apparenze, della bella presentazione.

Una ricerca cruda, rude e solitaria, con pochissime concessioni al piacere degli occhi.

Eppure Meloni è un'impareggiabile maestro del colore. Certe sue tele e, soprattutto, certi acquerelli trasudano poesia e delicatezza, cose che però raramente si concede.

Il tutto in una città che non lo ama e lo guarda con fastidio. Non tutti a dir la verità, c'è anche chi lo apprezza e sostiene.

Ma proprio chi si occupa di cultura dovrebbe fare i conti con le sue provocazioni e con il suo sterminato lavoro. Altro che ipermercati d' arte alla Gran Guardia!