Il ministero delle Politiche Agricole cambia nome e diventa "Ministero dell'agroalimentare". Anche dal punto di vista semantico il governo marca la propria vicinanza al business e la distanza dal lavoro. Il contadino, ossatura del nostro sistema alimentare, diventa invisibile.
A rottamare l'agricoltura italiana, con un sol colpo, ci avevano pensato in molti, a cominciare da quelli che volevano abolire il ministero dell'agricoltura per non dover affrontare la riforma del suo fallimentare funzionamento ma sembra che solo il primo ministro Renzi ci possa riuscire.Così almeno a stare all'annuncio ufficiale che, ci informa, "Il dicastero delle Politiche Agricole cambia nome e diventerà "ministero dell'Agroalimentare" (presidente del Consiglio Matteo Renzi nel corso di una conferenza stampa a Palazzo Chigi - 13.01.2016) per accompagnare l'accordo da 6 miliardi di euro siglato tra governo e Intesa San Paolo per finanziare il settore agroalimentare". A leggere il comunicato si capisce che per il Ministro Martina e per il governo per "agroalimentare" si intende "agribusiness." cioè industria agroalimentare. È risaputo che, in questa visione, "...la componente agricola tende a sparire, mentre assume un peso sempre maggiore il settore distributivo..." e delle industrie agroalimentari a monte ed a valle della produzione agricola.
Tutti a lamentarsi di quanto "la politica sia separata dal paese", quindi non ci sorprendiamo che il governo non ricordi che l'agricoltura italiana - il cosiddetto settore primario - a pari merito con quella francese, sia la più importante dell'UE, che – stando ai dati ISTAT (SPA, 2013) – è fatta di 1.516.000 aziende e 992.000 occupati (cioè il 72% degli occupati dell'intero settore) contro gli occupati nelle imprese industriali del settore (tutto compreso, anche la ristorazione e gli ambulanti) che rappresentano solo il 28%.
Viene ripetuto continuamente che l'export agroalimentare è quello che tira, che ci salverà il mercato mondiale della crescita dei consumi alimentare nei paesi emergenti e nelle megalopoli (magari dando credito alle stime ottimiste proiettate al 2050 quando la crisi economica sarà solo un ricordo), senza mai dirci chi produrrà quello che esportiamo o esporteremo.
Vediamo come sono andate le cose con il nostro commercio internazionale agroalimentare, ricordando comunque che le vendite dell'agroalimentare "italiano" dipendono per tre quarti ancora dal mercato domestico. (ISMEA). "Ancora sostenute dal deprezzamento dell'euro, le esportazioni dei prodotti agroalimentari italiani migliorano invece la perfomance già positiva dei mesi precedenti, con un solido più 7,1% nei primi 5 mesi dell'anno 2015"(ISMEA). E ancora "Da segnalare il contributo particolarmente positivo dell'agricoltura che avanza all'estero dell'11,8% a fronte di un incremento più contenuto dell'industria alimentare (+6%)".
Questi dati sono riferiti, però, al confronto con il 2014 che si era chiuso con un meno 1,65% sul 2013 per l'export del settore primario (in cui il settore primario per uso alimentare riportava un meno 1,54 %) e con un più 0,69 per le importazioni ma con un più 1,63% per l'importazione di prodotti per uso alimentare del settore primario. Per l'industria agroalimentare, il 2014 si era chiuso con un più 2,89% sul 2013 per l'export, mentre le importazione avevano realizzato una crescita del 4,38% sul 2013 (Federalimentare Servizi srl). Come dire, nessuno di questi dati fa prevedere miracoli nell'export mentre evidenziano una continua erosione del mercato interno da parte delle produzione importate.
L'industria agroalimentare italiana ha molte caratteristiche, decantate dalla mitologia del made in Italy, tra cui quella di essere effettivamente poco "italiana". Sulle 114 grandi Industrie alimentari, delle bevande e del tabacco (con oltre 250 addetti) nel nostro paese (ISTAT, 2015), 27 sono a controllo estero ("multinazionali") e 87 sono a controllo nazionale. Le multinazionali nell'agroalimentare, pur rappresentando solo lo 0,3% dell'imprese (183 in totale, comprese quelle di dimensione più ridotta), realizzano il 14 % del fatturato totale, il 14,2% del valore, il 17,3 % degli investimenti in ricerca ed innovazione ed occupano 30.600 addetti (ISTAT, 2013), pari al 7,1% degli addetti. Nel 2013 hanno fatturato circa 18 miliardi di euro.
I loro scambi all'interno dello stesso gruppo rappresentano il 71,8% dell'export totale delle Industrie alimentari, delle bevande e del tabacco "italiane" (ISTAT, anno 2013). Che qui sia celato la performance delle esportazioni agroalimentari italiane? Sostenere l'export agroalimentare rafforzerà le multinazionali del settore presumibilmente a scapito della PMI italiana ancora esistente.
Qualche nome (in ordine di volume di fatturato totale, 2012): Unilever Plc/Unilever NV, Nestlè, Lactalis, Heineken N.V., Groupe Danone. Ferrero, la prima delle imprese italiane, sta al 12.mo posto in questa graduatoria.
Se solo si guardasse con occhio attento (e competente) la struttura dell'economia agricola del paese, certo che dovremmo cambiare nome al Ministero, magari chiamandolo "Ministero dell'alimentazione, agricoltura e sviluppo rurale".
Ma prima di cambiare il nome al Ministero sarebbe sicuramente più utile cambiare visione dell'agricoltura del paese, immaginando di valorizzare la capacità produttiva, di investimento e transizione agroecologica di quel milione di aziende agricole di piccola e media dimensione che restano la struttura portante dell'agricoltura italiano e della sua capacità di fornire occupazione oltre che alimenti di qualità prima di tutto al mercato interno nazionale ed europeo.