Ospitiamo un interessante articolo apparso su Tuttolibri - La Stampa, Sabato 9 maggio.
.Siamo diventati così, piatti, senza profondità, sottili lamine di luce su uno specchio. Dimenticare significa anche non avere niente davanti. Tutto finisce allo specchio, che rimanda indietro ciò che vede. Dimenticare significa assottigliarsi, fino a diventare velo inutile.
Terra e sangue, e radici. Ci siamo ridotti a piante, condannate a rimanere aggrappate a un terreno, a quel terreno che dà loro di che vivere. Eppure abbiamo piedi, non radici. Lo sanno i fanatici della tradizione, che ci vorrebbero tutti come alberi?
E può accadere che un giorno la terra da cui ci sfamiamo si inaridisca, si faccia crosta inutile.
Dobbiamo allora morire sul posto? Lo abbiamo fatto quando è stata la nostra terra a seccare?
"E - vi preghiamo – quello che succede ogni giorno, non trovatelo naturale. Di nulla sia detto: è naturale in questi tempi di sanguinoso smarrimento, ordinato disordine, pianificato arbitrio, disumana umanità, così che nulla valga come cosa immutabile" ci ammoniva Bertolt Brecht. Eppure non basta nascere per esistere, bisogna avere una cittadinanza. Non esistono i diritti dell'uomo. Hai o non hai diritti, non perché sei un essere umano, ma perché sei un cittadino, perché hai un passaporto.
Abbiamo trasformato la nascita in nazione. Il verbo che usiamo quando si concede a qualche straniero la nazionalità italiana è naturalizzare, rendere naturale. Come se fosse la natura a dotarci di una cittadinanza.
Come fosse impossibile farne a meno. Fingiamo che tutto ciò sia naturale. Abbiamo tessuto ragnatele di confini e ora ne siamo impigliati. Incapaci di liberarci, di pensare in modo diverso.
Allora gli stranieri, i rifugiati diventano inquietanti, perché svelano la finzione, spezzano la continuità tra uomo e cittadino, fra natività e nazionalità. "Non appartengo a nessuna nazionalità prevista dalle cancellerie" scriveva Aimé Césaire. Parlava di schiavi.
Siamo diventati provinciali, gretti, insofferenti per ogni minima variazione della nostra routine quotidiana. Preferiamo un encefalogramma piatto ai sussulti del cuore. L'abitudine è una cattiva malattia, "una maestra di scuola imperiosa e ingannatrice" già ci ammoniva Montagne oltre quattro secoli fa.
Ci siamo rinchiusi nel nostro pascolo a brucare la nostra erba e nemmeno ci sembra più buona quella del vicino. "Piccolo è bello" urlano i politici, che invocano insegnanti di "casa nostra", giudici di "casa nostra", tutto di "casa nostra". Il locale assurge a marchio di garanzia.
Come se insegnanti, politici, giudici fossero prodotti tipici di una terra. Specialità locali, come il tartufo e non il frutto di una vita di studi e lavoro. Terra e sangue. Il cerchio attorno a noi si stringe, lo abbiamo stretto, fino a isolarci. E rimaniamo soli. Soli e sempre più "tribali". La solitudine ci ha portati a essere piccoli, diffidenti, incivili. Ci ha reso soli una politica vuota, senza pensiero, ridotta ad amministrazione.
Una politica che non scalda i cuori, che non spinge le persone a unirsi,male divide, una a una con l'indifferenza.
La solitudine fa crescere la paura e ci inventiamo un nemico comune per credere di essere uniti e solidali. In realtà siamo solo capaci di un individualismo collettivo. Più ci sentiamo soli e più ci aggrappiamo a idee astratte e vaghe come identità, altra parola divenuta buona per nascondere tutte le avarizie, tutti gli egoismi.
"Un'epoca fraintende l'altra" scriveva Wittgenstein, "e un'epoca piccola fraintende tutte le altre nel modo meschino che le è proprio".