Chi si ricorda della Isetta? Forse la mobilità del futuro, leggera e lenta, potrebbe contemplare le micro-auto dei tempi andati. Ma occorrerebbero buonsenso e tecnologia usata appropriatamente.
La natura non ha fretta, eppure tutto si realizza.
(Laozi)
Non ci sono vie di mezzo per la mobilità privata: da un lato ci sono i SUV, auto sempre più grandi, sempre più ingombranti e sempre più veloci, dall'altro la razionalità.
Quale, tra le due correnti di pensiero, è prevalente? Questo lo stabilisce essenzialmente il prezzo del petrolio. Va da sè che, in questo periodo di prezzi energetici sottoquotati, la fazione favorevole alle mega-macchine superpotenti ha vinto alla grande.
Qui a veramente.org sappiamo riconoscere le sconfitte: la nostra petizione per il limitatore di velocità alle auto (come quello in uso sugli autocarri) ha raggiunto la vertiginosa cifra di 140 firme in quattro anni.
Se rapportata agli iscritti della nostra newsletter, fa meno del 2%. Segno che, anche tra gli ambientalisti, l'auto non si tocca. Guai a parlare di mobilità pubblica, di limiti di velocità. Si può parlare di auto elettrica o ibrida (ma non parlarne male!) e qualche volta si può parlare di bicicletta, ma con moderazione.
Eppure, in questi giorni di grande cambiamento, a qualcuno sta balenando l'idea di una mobilità privata più leggera e lenta di quanto gli ipertrofici SUV possano imporre. E fanno tornare alla mente una splendida eccellenza italiana: una microcar degli anni '50, oggi solo un vago ricordo. Parliamo dell'Isetta, una microvettura prodotta dalla ditta italiana Iso di Bresso tra il 1953 ed il 1956 e, su licenza, dalla tedesca BMW tra il 1955 ed il 1962.
Tra i suoi record, quello di prima automobile di serie a basso consumo di carburante (3 l/100 km) e quello di automobile a motore monocilindrico più venduta di tutti i tempi (161.728 unità vendute).
Fu un mezzo a metà tra una motocicletta e una vettura, semplice come una moto, ma con carrozzeria chiusa come un'auto, in modo da colmare il buco di mercato tra le motociclette e i modelli automobilistici più economici di allora.
Oggi, naturalmente, non possiamo più guidare questo tipo di cose, perché dobbiamo andare a 200 all'ora e trasportare tonnellate di roba. Riusciremmo a fatica ad attraversare un incrocio nel tempo di un verde.
Se pensate al disagio che può creare un solo APEcar nel traffico cittadino, si comprende quanto la circolazione di mezzi piccoli e lenti sia completamente fuori standard. Eppure 60 anni fa c'era gente che circolava con questi affari, anche con rimorchi.
Questo è l'effetto della nostra crescita: le strade sono diventate degli autodromi, in cui sempre più spesso, soprattutto se si circola a piedi o in bici, ci si fa del male o si muore. I bambini non giocano più all'aria aperta, e sono condannati a TV e videogames perché senza sorveglianza andrebbero incontro a morte certa. Dappertutto.
Forse non abbiamo bisogno di auto elettriche, ibride, a idrogeno, aria compressa, a scurregge di capra e altre tecnologie diaboliche, abbiamo solo bisogno della vecchia mobilità: treni, autobus, e le poche auto più piccole, efficienti, con limiti di velocità più bassi e magari fatti rispettare con sistemi elettronici.
Forse, più che di slow food, abbiamo bisogno di slow movement, in modo che la mobilità pubblica torni a essere competitiva e le auto private tornino a somigliare a quelle di 60 anni fa: piccole, lente e soprattutto poche.
Il mondo invece che fa? Nuovi grandi SUV, magari ibridi. Aggressivi, pesanti, inutilmente lussuosi. Tutti con una sola persona a bordo.